UNA GIORNATA AL MARE

confidenze 3 Avevo poco più di trent’anni quando sono entrata in questo studio, poco fa, e ora, dieci minuti dopo sono diventata una vecchia di sessanta. Una donna che ha già fatto tutto. Ho poco più di trent’anni e dentro di me ho scoperto di essere morta, marcia, in me non ci sarà mai più nessuna trasformazione, né ovulazione, né evoluzione. Ho scoperto di essere un imballo svilito, dentro di me il nulla. La dottoressa posa i fogli sulla scrivania e mi spiega incredula, che succede a volte che una donna della mia età entri in menopausa precoce. Si chiama proprio così, nessuna particolare fantasia nel nominarla, niente di diverso da quello che accade a ogni donna a una certa età. Solo che io non sono ancora quella donna. La dottoressa mi guarda e non ha parole per consolarmi, può solo proporre di rifare le analisi. Io non parlo, non oso oppormi a quel verdetto ingiusto e inappellabile. Proprio come ho imparato fin da bambina, mai ribellarmi. Proprio come avevo fatto tre mesi prima, quando mi avevano licenziata con una semplice telefonata. Proprio come avevo fatto con lui. Da quanti anni morivo ogni giorno rinunciando a me stessa? Eppure in me, nemmeno questa volta si muove un muscolo, nessun sussulto di ribellione, il mio viso è impassibile, anche i polmoni hanno rallentato il loro soffio, quasi a cancellare qualsiasi traccia di vita. Solo il sangue continua a circolare silenzioso, complice muto testimone di ogni mia rinuncia. Il sangue scorre senza vita dentro, un sangue che non genererà mai vita.
Con la mano sulla spalla la dottoressa mi accompagna alla porta, percorriamo il lungo corridoio una accanto all’altra, sembriamo una madre e una figlia, o forse, vorrei solo che fosse così. Lentamente, l’aria entra nei polmoni e il mio cervello comincia a passare in rassegna le infinite sfaccettature di questa faccenda. Esco, salgo sul motorino e mi metto sulla strada di casa, vado pianissimo. Mi gira la testa, mi fermo in un bar, c’è il sole e spero che un cappuccino pieno di zucchero mi faccia stare un po’ meglio. Mi siedo e aspetto ma solo in questo istante mi rendo conto di una cosa ovvia come la luce del sole. Senza preannuncio, il mio viso è inondato dalle lacrime, singhiozzo e faccio no con la testa ma continuo a non emettere un lamento. Tiro su col naso e le lacrime silenziosissime mi bagnano il collo e arrivano al petto. Non avrò mai figli, mi sono appena accorta che non sarò mai madre, non capirò mai la mia e rimarrò sua figlia per sempre. Immagino il mio utero morto, immobile, insensibile a qualsiasi stimolo. Un pezzo di carne dentro di me inutile e inutilizzato, senza destino. Sento un sentimento di finitezza che non conoscevo. Niente di filosofico, anzi, sento che sono solo questo mucchietto di carne ed ossa e che una volta consumato non ci sarà altro. Scuoto la testa mentre continuo a versare bustine di zucchero fuori e dentro il cappuccino, lo giro cercando di non sporcare la tovaglia bianca del bar.
Giro, giro, giro, e continuo a piangere silenziosa, quando una voce gentile mi parla. E’ un signore elegante, anziano seduto al tavolo accanto al mio “Signorina non pianga, non pianga così, cosa le sarà mai successo?” Io non rispondo ma penso che se solo sapesse, piangerebbe anche lui con me. Mi passa un fazzoletto di stoffa, candido, pulitissimo, stirato, mi dice di tenerlo e di asciugarmi le lacrime. Respiro l’odore di quella stoffa noto con quanta cura è piegata. Lo fisso nelle mie mani, mentre l’uomo ha ripreso discretamente a bere il suo caffè, non mi guarda più credo volesse solo farmi sapere che era accanto a me, che non ero completamente sola. Mi asciugo il viso, mi soffio il naso e attorciglio il fazzoletto intorno alle dita. Le lacrime ricominciano a colare, mi copro il viso con il fazzoletto. C’è più amore in quel pezzo di stoffa che nei giorni dei miei ultimi anni. Oggi la mia vita timorata e banale mi è scoppiata in mano, e questo è l’ultimo inderogabile atto. Mi asciugo gli occhi, questa volta decisa e risoluta, sembra che io abbia preso una decisione che ancora non so. Mi limito a bere il mio cappuccino ormai quasi freddo. Al primo sorso penso che ci ho messo troppo zucchero. Ma che importa! Mi giro verso il signore accanto per ringraziarlo, ma non lo trovo più. Quanto tempo ho passato con il suo fazzoletto in faccia? Eppure mi è sembrato un attimo, proprio come la mia vita, passata senza che io me ne accorgessi, perennemente intenta a prepararmi al momento giusto. E’ un giorno di inizio giugno, il sole è caldissimo, intorno a me nessun altro sembra essersi accorto del mio dramma, finisco il cappuccino e penso che sarebbe bello stare al mare. Adesso, sola col mare e col sole. Sono le undici di mattina di un giorno di giugno, oggi decido io, vado al mare.

Il treno per Capalbio è semivuoto, il controllore è seduto lontano e io posso far finta che non ci sia nessuno in quel vagone. Il sole persiste e la luce del mare comincia ad avvicinarsi. Penso che se esistesse solo adesso, questo momento voglio dire, se non esistesse due ora fa, tre mesi fa, un anno fa, dieci anni fa allora potrei dire che sono felice. Quante volte ho pensato di andare al mare, in mezzo a una settimana qualsiasi e non l’ho mai fatto. Azione che segue il desiderio, bisognerebbe vivere sempre così. Il sole mi riscalda il viso e forse mi addormento un po’; dopo tante lacrime il sonno è come quello di un bambino che ha gridato invano dalla culla, una specie di abbandono totale. Per fortuna il controllore mi sveglia e scendo a Capalbio Scalo. Conosco bene questo posto non devo chiedere indicazioni a nessuno. Mi dirigo subito verso il sottopassaggio della stazione e una volta fuori da quel tunnel di cemento armato, eccola finalmente la luce che cercavo. Percorro a piedi la strada che attraversa la Riserva, sono circondata da campi di papaveri e dai riflessi bluastri della laguna. Cammino senza fermarmi, voglio arrivare al mare. Cammino accanto a poche case, ancora chiuse prima dell’estate. Che spreco, penso per un attimo, ma passo dritta, che m’importa, io voglio andare al mare. Sto trattenendo il pensiero da quando sono salita in treno: come farò ad affrontare quello che mi ha detto oggi la mia ginecologa? cosa farò? Le dune dopo l’inverno sono più folte e devo chinarmi per passare sotto i rami che in quei freddi mesi si sono di nuovo ricongiunti e ritrovati. Passo sotto, mi faccio piccola piccola, non mi ci vuole tanto. Cammino e mi rendo conto che sto bene anche là sotto, nella penombra, più vicina alla terra che al cielo. Ma sento il rumore forte del mare, anche l’odore ormai è così vicino che mi sembra già d’avere il sale in bocca. Faccio pochi altri passi e finalmente eccolo, il mio desiderio avverato. La luce è accecante e calda, mi tolgo una scarpa e infilo il piede nella sabbia. Che meravigliosa sensazione, via anche l’altra scarpa. Guardo i miei piedi nascosti sotto la sabbia, mi alzo e resto ferma per qualche istante con tutto il peso sui piedi sotterrati dalla sabbia. E se i granelli di sabbia non reggessero il mio peso e lentamente cominciassi a sprofondare? Aspetto, ma non succede nulla, sento solo che sottoterra la sabbia è fredda e non mi piace più. Mi rimbocco l’orlo dei pantaloni e inizio a camminare verso la riva. Non ho dubbi. Non c’è nessuno, nemmeno in lontananza, questo posto non esiste per nessun altro in questo periodo dell’anno. Mi avvicino alla riva e mi spoglio, inizio sicura poi timorosa rallento. Davanti a me il mare calmo, mi sta aspettando? Per lui esisto o no? Un’enorme paura si sta impossessando di me. Ricomincio a spogliarmi, di cosa ho paura? Mi guardo intorno, non c’è anima viva. Ci sono solo io e il mare. Eppure ho paura ancora, di chi? Mi tolgo la maglietta, sono nuda. Il respiro si fa più pesante, sento quasi un dolore al cuore. Provo a controllarmi, inspiro, espiro, inspiro, espiro, il rumore delle onde si sovrappone a quello del mio respiro. Faccio qualche passo verso l’acqua, i piedi sono dentro, è gelida. Resto là, continuo a respirare e spero di non sentire più quel freddo, penso che se diventassi un pezzo di giacchio non sentirei più nulla. Ricomincio a camminare, un passo alla volta, uno davanti all’altro, io non sono qui e questo non sta succedendo a me, io non sento più freddo. Il mio corpo continua ad avanzare nell’acqua, un passo alla volta senza più fermarmi. L’acqua mi arriva al collo, il sangue dentro di me ribolle, improvvisamente ho caldo. Allora faccio un altro passo e la mia testa scompare sotto l’acqua. Un attimo, il silenzio lì sotto è magnifico e io sono di nuovo felice. Soffio l’aria fuori dai polmoni e lentamente comincio a scendere, mi diverte sentire il peso del mio corpo che mi porta giù. Ci provo sempre a sdraiarmi sul fondo del mare, ma sono anni ormai che non ci riesco, scappo sempre prima. Da ragazzina invece ci riuscivo, solo che mia madre si spaventava ogni volta e a forza di sentire le sue paure, ho dimenticato come si fa. Sempre stata così mia madre, il suo amore per me si misura in paura. Il suo modo di proteggermi è stato mettermi paura. Però questa volta ci voglio riuscire. Apro le labbra in un sorriso da pagliaccio, dalle fessure tra i denti butto fuori l’aria, il mio corpo accelera verso il basso. Divento più pesante, sto per arrivare sul fondo, ma il respiro è finito, non resisterò più di qualche secondo, un dolore mi schiaccia il petto ma non m’importa, voglio riuscire a poggiare la testa. L’istinto a risalire è fortissimo, ma non devo muovermi, non devo perdere la lenta accelerazione che spinge il mio corpo verso il basso. Non devo avere paura; non si muore così, non si muore in un attimo. Sento la schiena che si adagia sulla sabbia e subito dopo anche la testa tocca il fondo. E’ morbido, proprio come ricordavo, niente di cui avere paura. Sorrido e l’attimo dopo sono fuori.
Rido. Fuori dall’acqua è freddo ma la luce è entusiasmante e io sono viva. Corro fuori dal mare. Crollo sulla sabbia bollente, mi lascio asciugare dal sole e dal vento. Un insetto s’arrampica tra le mie cosce, forse m’ha preso per una nuova duna. La sabbia asciutta scivola via dal mio corpo, mi fa solletico ma non mi muovo. Sento il rumore del mare, i gabbiani, il vento in mezzo agli alberi e in lontananza il rumore attutito di un barchino. Rido, il sole mi ha scottato le guance e mi accorgo d’aver fame. Le dune sono più vicine, sembrano essersi spostate, ma è solo l’ombra che s’allunga verso la riva. La terra gira su se stessa e io giro con la terra, quante volte ho fatto il giro del mondo senza essermene resa conto? Incredibile. Però adesso ho fame e i borbottii del mio stomaco hanno la meglio. Spolvero via la sabbia che ho addosso, mi rivesto e lascio la spiaggia. Fuori dal campo di girasoli c’è la navetta della Riserva. Salgo, ci sono solo io, ma l’autista non sembra particolarmente incuriosito. Mi piace la gente che si fa i fatti suoi, quelli che stanno bene pure se non succede niente. Pago cinquanta centesimi, mi siedo dietro e mi lascio accompagnare.
Alla stazione scopro che il prossimo treno arriverà tra mezz’ora, giusto il tempo di divorare un panino. Il bar è quasi vuoto ma è il solito bar e mi piace. Sono abitudinaria, mi piacciono i luoghi che già conosco; ho sempre bisogno di sentirmi a casa. Mentre mangio vedo entrare un uomo dalla porta, è un motociclista, l’ho visto poco fa mentre scendevo dalla navetta. Sulla soglia del locale, in contro luce si vede solo il suo profilo nero. Io lo guardo senza particolare interesse, sono ancora fiera di me per quello che ho fatto al mare. Lui intanto avanza, il passo pesante per l’armatura di pelle che indossa e il casco in mano, eppure senza nemmeno un tentennamento si dirige verso il mio tavolo. Ho un moto d’allerta, mi guardo intorno e verifico che ci sia qualcuno in giro, ci sono due uomini che prendono un aperitivo. Adesso l’uomo è davanti a me, in piedi fermo, aspetta. Io lo guardo in faccia e mi accorgo che sorride generoso e sincero, come se mi volesse bene ma io non lo conosco, non l’ho mai visto. Sono confusa e sto ancora cercando di capire cosa vuole da me, quando mi chiede se può sedersi al mo tavolo. Non riesco a staccare i miei occhi da quel sorriso per me commovente e non riesco a comunicare più di così, sorrido. Poggia il casco su una sedia lì accanto e si sfila i guanti, con calma, non ha né fretta né imbarazzo, mentre continua a guardarmi sorridendo. Sono impressionata dalla sua sicurezza che non è presunzione, anzi. Sono certa che avrebbe continuato a sorridermi in quel modo anche se gli avessi detto che volevo restare sola. Non è nemmeno seduzione, sono stupita, come si può sorridere con tanta generosità e sincerità ad una sconosciuta? Continuo a guardarlo, sento che sul mio viso si sta formando un sorriso, un sorriso che si allarga e arriva agli occhi. A mia insaputa anche il mio cuore sta sorridendo. Con le mani copro la bocca, sono imbarazzata, non sono abituata a condividere tanta intimità con uno sconosciuto, non mi è mai successo. Finisco il mio panino, voglio andarmene, è troppo per me, la giornata è già colma, voglio solo tornare a casa. “Ti ho visto prima, sai? sulla spiaggia”. Io non rispondo, mi sento scoperta, indifesa e non voglio condividere quel momento con lui. “L’ho capito che volevi stare sola, però ho pensato che era meglio se restavo nei paraggi, non sapevo bene cosa volessi fare”. Allora alzo gli occhi su di lui, adesso è serio, e finalmente vedo il suo volto. “Pensavi che mi volessi ammazzare? Mica sono pazza, eh?”, “Ammazzare no, ma magari scoprivi che là sotto si stava meglio e decidevi di restarci”. Questa volta sono io che gli sorrido, mi piace quello che ha appena detto, penso che quell’uomo mi rispetta. Adesso sorridiamo insieme.
Il mio treno sta per arrivare, mi alzo e lo saluto veloce. Pago il panino e prima d’uscire però torno al tavolo da lui “Beh grazie. Voglio dire per … prima alla spiaggia. Bello sapere che c’eri”. Lui sorride e mi lascia andare.

Confidenze, n°3, gennaio 2013, Mondadori

Informazioni su filomenapucci

scrittrice, blogger Corriere della Sera
Questa voce è stata pubblicata in CONFIDENZE -Mondadori- e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento